Una chiacchierata con García Márquez, tra Maradona e il Quap

Percorsi

Città del Messico, ottobre 1992

“Qualche tempo fa stavo parlando a dei giovani in una università degli Stati Uniti. Erano studenti di scienze politiche e mi è venuto naturale chiedere loro senza nessuna intenzione provocatoria:

che pensereste se vi dicessi che fra dieci anni gli Usa non esisteranno più? Mi hanno guardato con smarrimento;

in nessuno dei loro visi si leggeva il dubbio che la mia potesse essere la solita bizzarria, la voglia di sorprendere dello scrittore famoso: E questo non solo per il tradizionale rispetto accademico che un giovane americano perbene ha, più di ogni altro, nei confronti di un Premio Nobel, ma perché credo che la mia domanda avesse sollecitato le perplessità con le quali questi ragazzi convivono ogni giorno.

Città del Messico 1982 - Intervista a Gabriel García Márquez
  • Minà aveva conosciuto Gabriel Márquez in un albergo di Città del Messico. Il Premio Nobel per la letteratura aveva lasciato la Colombia e chiesto lì asilo politico. Minà stava seguendo il presidente Pertini in un viaggio di stato per il telegiornale e aveva chiesto ai suoi amici messicani se potevano metterlo in contatto con Márquez. Con lui Minà si incontrò moltissime volte, a Città del Messico, a Roma, all'Avana, a Venezia su invito di Gillo Pontecorvo. Fu così che nacque un'amicizia che durò fino alla scomparsa del grande scrittore.
     

Città del Messico 1982 - Intervista a Gabriel García Márquez

“A dire il vero non lasciai loro il tempo di obiettare al mio catastrofico interrogativo perché li incalzai con un’altra domanda: come sarebbe stata accolta dieci anni fa la previsione di uno scrittore che avesse preannunciato il disfacimento del mondo comunista? Eppure è successo e forse, se nelle università, nei luoghi dove si tentano spesso ponderose analisi, si fosse visto l’universo comunista con meno pregiudizi e timore ideologico e con più attenzione realistica alla decomposizione del sistema marxista a causa delle sue aberranti applicazioni pratiche, sarebbe stato facile prevederlo. Ora io non so se parlando con quegli studenti ho visto il futuro del capitalismo, ma il loro smarrimento è lo specchio della quotidianità che no prevedere nessuna sicurezza per il mondo occidentale che dice di aver vinto.”

Minà con i 4 fondatori della Scuola di Cinema di S. Antonio de los Baños: Tomás Gutiérrez Alea e Julio Garcia Espinosa, Gabriel Garcia Marquez e Fernando Birri
  • La Scuola Internazionale di Cinema e Tv situata a pochi chilometri ddall'Avana, a San Antonio de los Baños, è considerata una delle istituzioni più importanti al mondo nel suo genere. Fondata nel 1986 dallo scrittore e giornalista Gabriel Garcìa Marquez, dal regista argentino Fernando Birri e dai 2 registi cubani Julio García Espinosa e "Titon" Gutierres Alea, la Scuola si pone come centro di produzione audiovisiva per studenti provenienti dall’America Latina, dall’Africa e dall’Asia. Concepita come una scuola di formazione artistica, la EICTV mette in pratica una filosofia particolare: insegnare non attraverso maestri professionisti, ma tramite cineasti capaci di trasmettere la loro conoscenza. Fin dalla sua fondazione, migliaia di professionisti e studenti provenienti da oltre 50 paesi, hanno trasformato la Scuola in uno spazio per la diversità culturale, di portata nazionale, meglio descritta come School of All Worlds.

Minà con i 4 fondatori della Scuola di Cinema di S. Antonio de los Baños:  Tomás Gutiérrez Alea e Julio Garcia Espinosa, Gabriel Garcia Marquez e Fernando Birri

Gabriel García Márquez mi racconta questo aneddoto mentre usciamo dall’Hotel Marco Polo di Città del Messico dove è venuto a prendermi per ritirare la videocassetta con l’intervista a Maradona realizzata a Siviglia per il suo “Quap” (Quedamos atentos y pendientes”) il rivoluzionario telegiornale che significa: “Siamo sempre all’erta”. Va in ona in Colombia per 25 minuti ogni sera e si è conquistato in nove mesi un’audience record del 49%. “In questa impresa” mi aveva spiegato chiedendomi un reportage sul ritorno di Maradona “Io sono stato una specie di ‘Spirito Santo’ di un gruppo di giornalisti amici e con radici diverse.

In pochi mesi siamo riusciti a creare una generazione di cronisti appena usciti dalle scuole

ai quali abbiamo cercato di inculcare una sola regola, sconvolgente per un paese impaurito come la Colombia, quella di non distinguere la notizia dal commento, come piace invece in Europa ai giornali e alle tv che si autodefiniscono imparziali e non lo sono. Un modo per abituare chi fa l’informazione ad assumere le proprie responsabilità, a dire con chiarezza come la pensa e a prendere coscienza delle proprie parole”.

E’ sabato e nella Zona Rosa, una parte del centro dove sono gli alberghi e i ristoranti, las tiendas del turismo tradizionale di questa megalopoli, si può passeggiare senza rischiare di essere “arrotati” da un traffico automobilistico impaziente quanto quello dei paesi ricchi, dove si corre perché “non si ha tempo da perdere”.

Gabriel García Márquez
Gabriel García Márquez

Città del Messico, in vent’anni è passata da 7 a 20 milioni di abitanti e non solo ha seppellito lo stereotipo dell’Indio con poncho e sombrero che fa la siesta ma ha smarrito una parte della sua identità, un po’ di quel piacere dell’attesa, di quella mollezza accattivante che erano il suo fascino, fino a che la solita parola, “ahorita”, pronunciata per chiederti di pazientare, di adeguarti ad un diverso respiro del tempo, quello messicano, non superava la soglia della pazienza per diventare una esagerazione, una malattia, una piccola occupazione della tua vita.

Con Márquez abbiamo deciso di andare da Samborns, in calle Amburgo, uno dei negozi di una catena di drugstore per cercare l’edizione latinoamericana di “Time”, dedicata a quella che gli europei chiamano la “scoperta dell’America” ma che da queste parti definiscono “la conquista”.

All’angolo di calle Londres, due studenti bloccano Gabo, il grande scrittore, con un’ammirazione normalmente riservata ad una rock star.

Hanno in mano l’ultima sua opera “Doce cuentos peregrinos” (“Dodici racconti raminghi”). “Stamattina siamo fortunati – affermano chiedendogli di firmare i volumi – chi avrebbe potuto immaginare che lei passasse di qui? Perché non viene all’università? Sa quanti compagni vorrebbero farsi autografare i suoi romanzi?”.

C’è una breve trattativa. Márquez dice subito che giocherà a carte scoperte: “Questo è il numero di telefono di casa mia. Vi diranno sempre che io non ci sono. Ma voi chiedete di Blanca, la mia segretaria, lei fisserà un appuntamento per le firme”. Poi un’improvvisa curiosità: “Ma che facoltà frequentare, ragazzi?” i due fan rispondono con orgoglio: “Derecho”, Diritto.

Lo scrittore che nel 1983 ritirò il Premio Nobel stretto nel suo “liqui-liqui” di lino bianco, tradizionale vestito della festa della sua Colombia, non riesce a nascondere una smorfia di scetticismo: “Studiate diritto in questo continente?”.

Sorride e per consolarli saluta i ragazzi con una pacca sulle spalle: “Hai capito?” mi chiede mentre entriamo da Samborns. “A che gli servirà studiare Legge in un continente dove i diritti della gente sono ancora un’illusione? Ma non ti devi sorprendere, queste sono terre dove gli uomini sono capaci ancora di vivere di speranza”.

Tratto da Un continente desaparecido, di G. Minà (Sperling & Kupfer Editori, Milano 1995)

 

"Un continente desaparecido" di G. Minà
"Un continente desaparecido" di G. Minà

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Più di sessant’anni di vita da cronista, all’insegna di storie, impegno sociale e servizio pubblico. Custodito in uno spazio solo, un flusso di inserimento progressivo di materiale filmico e cartaceo, edito ed inedito, che si fa eredità intellettuale e ponte di sapere fra vecchie e nuove generazioni.

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